CARAVAGGIO E IL SACRO – Dall’arte dell’inganno all’inganno dell’arte
Comprendere il contenuto; inserirlo nel giusto contesto esegetico; conoscere l’uso anche devozionale del tema, e la forma specifica della raffigurazione, alla luce di una lunga tradizione artistica per cogliere ciò che sembra nuovo e, magari, inconsueto, ma, spesso è contraddistinto da formule artistiche già usate nel passato: tutto ciò è solo una parte del bagaglio intellettuale che non può mancare quando si vogliono evitare emozioni e sentimenti facili e superficiali di fronte all’arte del passato, e di fronte all’enigma umana dello stesso artista, la cui opera è, ovviamente, fortemente influenzata dal tempo storico in cui visse. Solo così si può provare a entrare, non solo nella mente del pubblico del tempo e dei committenti, ma anche nell’animo dell’artista.
Davanti al fenomeno Caravaggio, ci si deve spogliare di molte idee moderne e costatare che in fondo, quello abitato dal pittore, è un mondo alieno, per poter provare a capire che cosa rappresenta. Questo mondo lontano, è terra incognita. Devo ammettere che a me mancavano alcune conoscenze elementari; mi erano necessarie le istruzioni per l’uso, o forse lo “stradario”, che mi consentisse di muovermi in quest’epoca ormai passata in cui la vita di Caravaggio si svolse. Ho dovuto dimenticare le mie certezze, e partire ex novo. Ho dovuto riconoscere la mia totale ignoranza: ho dovuto accettare di essere nel buio più totale. Anch’io avevo colonizzato il passato.
Nel caso di Caravaggio, la recezione delle sue opere è segnata da giudizi fuorvianti e, spesso, anche assurdi. Non voglio ripetere qui tutto il lessico psichiatrico di cui negli anni sessanta e settanta, sino ad arrivare a oggi, molti autori si sono serviti per impossessarsi di un’arte “moderna” di quattro secoli fa. Con un po’ di senso storico si sarebbero potute evitare molte speculazioni sul ruolo e sulla funzione che le opere del pittore, definito troppo facilmente maledetto, avrebbero occupato nell’epoca in cui furono create. I tempi erano altri. Il ruolo di un artista del 1600 non era per niente paragonabile a quello di un artista di oggi. Si deve dimenticare l’ideologia dell’arte romantica, dimenticare anche la dottrina artistica di oggi, e, più di tutto, abolire il concetto di avanguardia del tardo Ottocento e Novecento, tuttora in vigore, per provare ad avvicinarsi a questo mondo estraneo e sparito della Roma seicentesca di cui rimangano solo tracce da decifrare.
Quando molti anni fa ad Amsterdam fu organizzata una mostra sulle reliquie, posi questa domanda all’ideatore dell’evento, il mio vecchio professore degli anni Sessanta e Settanta, Henk van Os: «Come spiegare a un pubblico non solo laico ma addirittura ignorante in materia, il significato della tradizione cristiana di queste spoglie mortali?» «Non è possibile», mi rispose. Una mostra sugli Aztechi sarebbe stata cosa più facile, così diceva, perché il pubblico sarebbe stato consapevole di non saperne niente. Le conoscenze troppo rudimentali, impediscono ad un pubblico sempre più smemorato, di rendersi conto che è necessario compiere uno sforzo per capire. È necessario ricordare ciò che avevano dimenticato e recuperare il proprio passato.
Una conoscenza dei fatti base della fede cristiana, che è sempre un fattore determinante, non avrebbe guastato ad una recezione meno sbilanciata e, in fondo, anche più rispettosa dell’arte di Caravaggio. Riconoscere nelle opere di Caravaggio il mondo odierno, travagliato e sublime di un Francis Bacon può andar bene come passatempo “sentimentale”, ma non giova a comprendere nulla di quell’arte del tardo Cinquecento e di inizio Seicento.
Mi riconosco completamente nel libro di Lina Bolzoni, La rete delle immagini, pubblicato nel 2002 e poi ristampato nel 2009. In una cultura profondamente segnata dalla Parola, con la maiuscola, ossia dal Verbo incarnato, anche le immagini avevano una voce: parlavano, o potevano parlare, ma solo a condizione che chi le incontrava avesse imparato ad ascoltare. Udito e visione erano mezzi per aiutare a raggiungere un livello considerato superiore rispetto al solo capire attraverso i sensi fisici. La predica dava voce a ciò che si vedeva: e solo chi sapeva leggere era in grado di guardare. Guardare diventava così vedere e lo sguardo diveniva visione immateriale e intellettuale. La forma non era ancora “cosa” autonoma, esistente soltanto per comunicare sentimenti personali, anche se condivisi: era anche una forma di comunicazione spirituale. L’arte faceva prima di tutto parte di un sistema, in cui determinate idee e convinzioni erano sapientemente trasmesse dal pittore al pubblico. Già in un libro pubblicato in olandese nel 1995, intitolato Een hemel op aarde. De extase in de Romeinse barok, (Un cielo in terra. Estasi nel barocco romano), in cui mi soffermavo a lungo sull’estasi, e sulle modalità artistiche finalizzate al rendere partecipe il pubblico credente del tempo a questo stato elevato di credo praticato, mi sono occupato di ciò che chiamavo “canalizzazione delle emozioni”, ossia del modo in cui si poteva, non solo vivere in un “raptus” artificiale la fede, ma anche capire come cuore e cervello dovevano collaborare per raggiungere questo stato di integrazione di ambedue gli aspetti dell’essere umano, in una visione vissuta come esperienza superiore rispetto alla quotidianità.
Fu un grande piacere collaborare insieme a due amici cari, Maria Grazia Bernardini e Vittorio Casale, alla mostra Visioni ed Estasi, organizzata sotto l’egida di Giovanni Morello e del Comitato Nazionale per il IV Centenario della nascita di San Giuseppe da Copertino, nel Braccio di Carlo Magno in Vaticano nel 2004. La mostra fu concepita come una sorta di itinerario in cui i visitatori con l’aiuto dell’arte potevano percorrere la via che inizia in terra e termina in cielo, per poi ritornare di nuovo in terra per ripetere questa stessa esperienza tramite ciò che si potrebbe definire un placebo artistico. Così, nelle mie ricerche, mi muovevo dalla funzione dell’arte al suo essere funzionale.
La problematica cui ho accennato, mi ha seguito negli ultimi trent’anni in cui mi sono occupato di Caravaggio. Ricordo perfettamente un momento di sconvolgimento totale, quando nell’autunno del 1984, visitai con un gruppo di giovani studenti universitari olandesi la cappella Contarelli. Anch’io pensavo, come i miei studenti, che Caravaggio fosse un’anima gemella. Ma quando parlavo della supposta modernità di questi tre quadri, mi rendevo conto del fatto che in fondo non ne capivo nulla. Non capivo nulla del mondo raffigurato in quei dipinti: non avevo neppure la minima idea di che cosa rappresentassero, non conoscendo sufficientemente la storia sacra, la Bibbia, e neanche la figura dell’Evangelista Matteo che vi era rappresentato. Non avevo mai imparato la lingua che Caravaggio “parlava”. Questi dipinti comunicavano solo ciò che sapevo già, riflettevano solo i miei sentimenti ed emozioni. Erano uno specchio falso in cui mi sembrava di riconoscermi, perché rifletteva solo me: l’artista che aveva creato questi quadri era solo una copia inventata e falsificata di un originale incompreso: in fondo era assente.
Il tema di cui mi occupavo con questo gruppo di giovani studenti, era la figura di San Francesco nella Controriforma. Tutti noi ci eravamo, per così dire, incagliati in un dipinto singolare, quasi enigmatico, di Caravaggio, il cosiddetto San Francesco in estasi, conosciuto anche come San Francesco che riceve le stigmate, che si trova presso il Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford. L’opera era già stata il soggetto di un lungo articolo di Pamela Askew del 1969. Le sue interpretazioni non ci convincevano. Una sera però, poco prima della chiusura della libreria Tombolini a Roma, vidi un minutissimo trattato di San Bonaventura, l’Itinerarium mentis in Deum, tradotto in italiano con il titolo: L’ascesa a Dio. Sfogliandolo nella mia stanza da letto dell’Albergo Sole al Biscione, questo trattato fu una rivelazione, perché ebbi da subito l’impressione che mi fornisse la chiave di lettura di questo dipinto di Caravaggio che finora era rimasto per me un rebus. Qui, parole e funzione di questo libretto mi ponevano a confrontarmi con un modo di leggere il mondo come creazione, come opera d’arte, come artefatto, dunque, un libro, come un dipinto: come stimolo per praticare la fede. Il quadro di Hartford apparteneva dunque a un tipo di comunicazione in grado di attivarsi soltanto se il pubblico era istruito a usare l’immagine stessa nel modo corretto. Artista e utente dovevano trovarsi, per così dire, sulla stessa lunghezza d’onda. Compresi che dovevo ricominciare tutto daccapo. Dovevo ricostruire questo metodo di comunicazione, per comprendere meglio la forma e la sostanza stessa del dipinto in questione e, probabilmente, di molti altri quadri di quest’arte di secoli fa che finora mi avevano procurato solo un piacere estetico. Per me, almeno nelle mie ricerche, la funzione e la ragion d’essere anche dell’arte di Caravaggio, mutavano completamente: s’inserivano, secondo modalità storiche, in un mondo radicalmente diverso dal nostro.
Da allora mi sono volto con slancio in questo mondo strano ma meraviglioso. In Italia, le ricerche su Caravaggio avevano assunto una veemenza incredibile, se non addirittura pericolosa. Nel periodo in cui soggiornavo a Roma, nel 1995, studiando la letteratura devozionale presso la Biblioteca Vallicelliana, ebbi la fortuna di incontrare Lucio e Nelide Piccolomini, che mi invitarono a partecipare ad un convegno da loro organizzato nell’autunno dello stesso anno a Palazzo Giustiniani. Fu un’esperienza indimenticabile ma anche impressionante per uno studioso straniero. Dovevo parlare proprio dopo Pamela Askew. Mi ricordo anche un’accesa controversia tra Maurizio Calvesi e Luigi Spezzaferro, con l’intervento pacificatore di Luitpold Frommel, intervento riuscito solo perché ci si avvicinava all’ora del pranzo. Mi ricordo anche come Oreste Ferrari mi ammonì: «ricorda che non scrivi mai per nessuno, ma solo contro tutti». È stato l’inizio di un lungo e fruttuoso confronto, e addirittura l’inizio di una collaborazione con molti studiosi italiani che considero, avversari o no, veri amici.
È vero che gli studiosi italiani non riposano mai. Ho assistito a molte infuocate polemiche, alcune di esse foriere di molti strascichi, che mi hanno fatto trascorrere anni favolosi nel cuore di Roma. Per me questo ha costituito una forma di liberazione dalla mia mentalità nordica, e mi ha anche regalato una nuova patria. Questa atmosfera accogliente ma anche burrascosa, è sempre stata un grande stimolo, non solo per il mio lavoro, ma anche, cosa ancora più importante, per la mia vita.
Non posso menzionare tutti coloro che ho avuto la ventura di incontrare, specialmente durante i nove anni del mio incarico all’Istituto Olandese a Roma, poi divenuto Istituto Reale Neerlandese nel 2004 in occasione del suo centenario. Prima di tutto però vorrei menzionare il decano e maestro degli studi su Caravaggio, Maurizio Calvesi. E poi Alessandro Zuccari, Rossella Vodret, Silvia Danesi Squarzina, Claudio Strinati, il mio amico genovese Lauro Magnani, Stefania Macioce, Sergio Benedetti, Carlo Giantomassi e Donatella Zari, Arianna Antoniutti e molti altri ancora, in particolare Pino e Cristina Bianco e Malena McGrath. Vorrei aggiungere i nomi di alcuni studiosi che purtroppo ci hanno lasciato come Maurizio Marini e, recentemente, Vincenzo Pacelli. Non posso non aggiungere il nome di Helen Langdon, la cui assennata “antipatia” nei confronti dell’arte di Caravaggio ha prodotto un libro molto bello. Durante uno dei nostri incontri, questa volta all’Accademia Belgica sempre a Roma, abbiamo scoperto che entrambi condividevamo una certa avversione per quel pittore considerato uno «dei massimi rivoluzionari dell’arte di tutti i tempi», per citare il sottotitolo del libro fondamentale di Maurizio Marini. Però, va da sé che neanche noi siamo mai riusciti a sottrarci al fascino della sua arte.
Roma? Mi manca. Il fiammingo Karel van Mander, morto nel 1603 ad Amsterdam è stato uno dei primi a scrivere dell’arte di Caravaggio nel suo libro Het Schilder-Boeck, pubblicato un anno dopo la sua morte a Haarlem: vivere e appartenere, al tempo stesso, a due culture, ossia al Nord e al Sud, è un’esperienza magnifica e un arricchimento spirituale inestimabile. Sono grato perché mi è stata data la possibilità di vivere e lavorare in questa Città unica e veramente cosmopolita.
Bert Treffers.
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