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MESSINA 1908: Il TERREMOTO

Un romanzo letterario e storico che spazza via un silenzio secolare sul terremoto che colpì la città di Messina agli albori del novecento. Si potrebbe definire così “Messina 1908: il terremoto” della scrittrice Stéfana Bergesio.
L’autrice, al suo esordio nel mondo della scrittura, conduce i 32 racconti del testo attraverso un filo di organza, regalandoci un profumo di Sicilia, accarezzato da gelsomini e zagara, paesaggi marini, luoghi e persone.
Un modo di raccontarsi e raccontare il suo “che ha fatto sempre pensare”, usando le parole della scrittrice Anna Banti. Ogni pagina si lega all’altra pur mantenendo una sua unicità. La scrittura appare semplice e fluida creando un unicum in cui gli accadimenti succedono non lasciati al caso, donandoci un affresco umano incomparabile. In una città martoriata dal terremoto convivono percorsi, disamori, amori, una umanità intera, vite segnate dal destino ma abbracciate dai protagonisti che albergano in esse, come un cammino infinito. Le frasi vengono usate senza parsimonia ma non ad alta velocità, le sillabe e le consonanti scritte in corsivo non in stampatello, con sonorità leggera ma anche pietre o ciottoli lanciati sul reale; parole insomma quasi terremotate ma incastrate in una architettura classica e moderna, parole che si toccano.
Stéfana come “dotta fanciullina” per parafrasare una frase del poeta Andrea Zanzotto, riferita al suo amico poeta Fernando Bandini, interpreta quel senso pieno del proprio tempo, il riferimento ineluttabile alla tradizione adottando un linguaggio quasi “fuori tempo”, con un costrutto e un frasario antico, legato a memorie infantili, alle scoperte, alle curiosità, alle attese, alle illusioni e disillusioni. Nel testo troviamo un conflitto sempre presente tra maturità e giovinezza, tra consapevolezza e spontaneità.
Statuarie e forti sono le figure femminili che si difendono in una società fortemente maschilista legata ai bigottismi religiosi. Nessun giudizio moralistico nell’autrice, anche se sembrerebbe qualvolta accettare, soffrendo, la condizione umana e soprattutto femminile. 
Se prendiamo, ad esempio, uno dei romanzi della scrittrice siciliana Silvana Grasso, “il bastardo di Maùtana”, lo troviamo, nella sua bellezza, fortemente intriso di anticlericalismo e passione civile, con un linguaggio artistico molto ridondante e affascinante, mentre Stéfana Bergesio si declina, in modo espressivo, tra passato e presente, come autobiografa dell’isola siciliana e della sua isola “personale, trascinando la sua anima. Allora, drammi individuali, lacerazioni storiche, richiami ancestrali, problematiche sociali mai risolte trovano nel verbo narrativo, la loro impronta sociale ed individuale.
Dice Stéfana: “Una sera il circolo, del quale anche io facevo parte, riunisce i suoi soci e così conosco molte persone tra cui un signore alto, distinto e dai capelli bianchi. Il mattino successivo, avendo lui un negozio accanto al mio, mi invita a prendere un caffè nel bar lì accanto. Quel signore era Siciliano e nei nostri lunghi discorsi mi racconta di aver avuto la sua nonna Giovanna, giovanissima e con lunghi capelli rossi e occhi verdi, testimone personale del terremoto scoppiato nel 1908”.
Da questo colloquio avuto da adolescente, prende spunto la sua ostinazione a non voler lasciar cadere il desiderio di narrare la sua Messina, ma soprattutto se stessa, mettendo nero su bianco le sue emozioni e contraddizioni. Stéfana, piemontese di origine, viaggia in modo magistrale con la penna, addentrandosi nell’animo di una terra, la Sicilia e, dei suoi abitanti. Lo fa scrivendo quasi in forma di saga, facendosi anch’essa isolana, descrivendo una umanità intera, riconoscibile in ogni angolo del pianeta. Stéfana disegna un lessico familiare ed umano che ricorda la scrittrice Natalia Ginsburg, con l’amore per i dettagli, l’incanto ed il disincanto per epoche ormai lontane, apparse improvvisamente in tutta la loro criticità e disagio ma anche nella loro bellezza. Bellezza a cui dovrebbe essere affidata la salvezza del mondo.
Nel romanzo affiora la critica della mentalità borghese dell’epoca ed in genere della denigrazione, del pettegolezzo e dei pregiudizi. Emerge la coscienza e l’identità femminile nel prendersi carico di una terra e di persone da parte di una donna che incarna tutte le donne, il riscatto di un popolo, il rifiuto di ogni sopraffazione e violenza, la ricerca della verità contro la menzogna.
Dice l’autrice: “Nonostante la guerra, il cielo da noi era azzurro e quasi sempre sereno eccetto i momenti in cui gli aerei si affrontavano. Insomma, io sono nata in campagna e dai contadini ho imparato un’arte eccellente, nelle stalle calde del fiato delle mucche vengono tramandate storie meravigliose e per aver appreso negli anni dell’infanzia a raccontare mi è rimasta nelle orecchie la musica incantatrice delle nènie dei canti di storie”.
Una cantastorie dunque che coglie nelle nènie degli altri le proprie e, così, fa vivere la propria vita e i suoi sentimenti, intatti nel tempo.
In ciascuno dei personaggi, vive tutto il femminile ed il maschile dell’universo, ma è Giovanna, con i suoi capelli rossi e gli occhi verdi smeraldo, la protagonista indiscussa di tutti i quadri sociali ed umani raccontati, a tessere la tela di tutte le storie e della narrazione. Narrazione che inizia con “Una serata importante” in cui Giovanna, andando in sposa diciassettenne al notaio Lo Maso, accetta la sua nuova esistenza di governatrice e padrona di casa, di donna benestante maritata, rimpiangendo però la sua vita di fanciulla in collegio, dove poteva ancora sognare e dare spazio alle fiabe. La madre scomparsa, Maria Crocefissa, è sempre al suo fianco nella sua dolorosa e forte presenza. Era stata veramente crocefissa nella sua vita e si era difesa dalla cattiveria altrui, dalla lupara assassina, difendendo la sua piccola creatura anche con una scelta che le aveva arrecato molta angoscia: mettere Giovanna dalle suore e in collegio. “Una villa antica, in stile barocco, ospitava il convitto femminile dove viveva Giovanna”. Una anziana contessa, Mérveille De Somme, aveva donato ad un ordine religioso la villa con un magnifico giardino a picco sul mare cristallino di Taormina. Giovanna aveva avuto il suo “Salvataggio” prima ritrovandosi con l’amata madre e poi respirando a pieni polmoni aria marina in un porto sicuro.
“La città di Messina, prima della tragedia era stata una gioia per gli occhi e ora non ne rimaneva nemmeno il fantasma” dal racconto “Il campo di accoglienza”; terra e mare protagonisti assoluti con il loro pauroso ondeggiare e sussultare.
Dopo che il sisma si porta via il marito, Giovanna rimane sola ma si lega mani e piedi ai messinesi per far rinascere se stessa e una città. Ritrova anche l’amore, Anatoli, un capitano medico della Marina. Anatoli è un amore vero, vissuto nelle viscere, un sentimento che forse Giovanna non aveva mai provato. Si prende cura di tutti, in particolare di un bambino, Edoardo. Ne “La prima moglie di Antonio”, la scrittrice parla ampiamente del rapporto tra il marito Antonio e la prima moglie di lui. I due si amarono teneramente ed erano uniti anche dalla passione per la poesia… “erano legati da un rapporto fatto di carta e di sogni”.
In tutti i piccoli pometti del romanzo, Stéfana parla sì della tragedia e delle macerie del terremoto, parla della lotta contro il male che è ospite perenne nel cuore degli uomini, di gente senza scrupoli, anche di una ragazza abusata da un uomo violento, ma soprattutto descrive una rinascita e la forza dell’amore. Giovanna dopo un secondo matrimonio con il padre del suo defunto marito, rimane padrona della maggior parte dei latifondi di famiglia. Dal racconto “Don Giuseppe” l’autrice ci racconta come “Con malignità le ragazze spargevano a piene mani una calunnia”, perché Antonio, figlio di Don Giuseppe e primo marito di Giovanna, a differenza dei contadini non rincorreva le ragazze per i campi e, Don Giuseppe doveva vergognarsi “di tenere in casa, curare amorevolmente e difendere dal mondo un pederasta”. Sottocultura di una epoca forse, che però ha tenuto nel corso dei decenni. La nascita del suo piccolo Filippo per Giovanna riempie gran parte della vita. Ma un nuovo terremoto si abbatte su di lei con un “incidente” occorso all’amato figlio. Un agguato in realtà, rimasto misterioso ed impunito. Giovanna trascorre le giornate pensando di volersi allontanare da Messina e dalla famiglia Lo Maso e da tutti i ricordi dolorosi. Avviandosi verso una nuova vita, decide di lasciare le terre e gli averi ai componenti in vita della famiglia Lo Maso, portando con sé, nello scrigno del suo cuore, solo i ricordi belli e generosi.
Donna “Giovanna” si risveglia a nuova esistenza. Fattasi quasi città e pilastro di un futuro raggiungibile.
Per coloro che dicono di avere poco tempo per la lettura il libro di Stéfana Bergesio è una vera manna per avvicinarsi a pagine che aprono la mente e sono fonte di stimolo. Per tutti un modo per conoscere e ritrovare classici della scrittura, tutta al femminile che parte da sé, dalla propria cifra di donna.
Come prefattrice del libro non devo e non posso parlarvi di ogni singola riga o racconto, ma invitarvi a prendere in mano le carte del testo ad una ad una e leggerle con attenzione e passione, perché pur essendo storie romanzate, troverete in esse corpo e cuore, occhi, orecchie, mente, passione e fantasia espressiva dell’autrice che avrà arricchito le vostre giornate.
                       
Gina Di Francesco
Curatrice Collana editoriale
Le ginestre donne In…Edite
 

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Autore

  • Stéfana Bergesio

    Sono nata il 4 marzo 1943 nei territori piemontesi dove la guerra continuava a mietere giovani. Durante i freddi inverni frequentavo le stalle dei contadini dove veniva sempre riservato un angolino per gli amici odoroso del latte delle mucche e caldo del loro respiro.
    La nostra famiglia si era rifuggiata in una piccola frazione di S. Maurizio: quattro o cinque cascine, una piccola scuola, una chiesa e davanti una grande bascula dove pesare i frutti di quella terra generosa. Dimenticavo la casa del dentista mio nonno e due o tre negozi.
    Tanto verde attorno e (da comea ricordo io) tanta pace e tranquillità. Ecco dunque Malanghero, il paese che mi ha dato il primo respiro.
    Passano alcuni anni ed io entro in collegio, dove ricevere una buona educazione e qui comincio a tenere diari e scrivere biglietti e poesie.
    Adolescente e già amante dello scrivere. Ma non riesco a spiccare un volo decente.
    In età sufficientemente matura mi viene affidato da mio cognato un negozio e le mie amicizie e conoscenze aumentano di numero.
    Una sera il circolo del quale facevo parte riunisce i soci e così conosco molte persone tra cui un signore alto, distinto e con i capelli bianchi. Il mattino successivo, avendo lui un negozio accanto al mio, mi invita a prendere un caffè nel bar li accanto. Quel signore era Siciliano e nei nostri discorsi mi dice di aver avuto la nonna testimone personalmente del terremoto nel 1908.
    Era arrivata per me la storia esclusiva, non dovevo fare altro che scrivere e raccontare al mondo una storia stupenda, ricca di scorci indimenticabili e abitata da molti personaggi, un paesaggio di terra assetata appoggiato in un mare di cristallo.

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