HOTEL REBIBBIA
Si può raccontare il carcere senza conoscerlo? La scommessa degli autori dei racconti inseriti nel libro fotografico che avete nelle mani, ben distanti dal volere giudicare cioò che può condurre un uomo dietro le sbarre di una prigione, è stata quella di proporre il resoconto immaginario di prersone segregate che desiderano la libertà tanto da avvertirne continuamente il bisogno.
Ogni volta che si passa davanti a un carcere ci assale un’inquietudine che non lascia scampo. Se mai un giorno dovesse capitare a me, ci si domanda, come potrei sopravvivere a un’esperienza del genere? Cosa ne sarebbe della mia vita, dei miei affetti, e che fine farebbero i miei stessi pensieri? Allora ci si immagina vinti, seduti immobili sul bordo di una branda malandata a fissare una parete “…con una vaga letargica consapevolezza di vita”. E una quantità di persone senza volto che si spengono e languiscono giorno dopo giorno trascinando in silenzio un’esistenza incolore, spettri erranti in cerca di serenità, uomini e donne diventati scorie di questo nostro mondo, belve feroci da rinchiudere dentro solide gabbie per impedirgli di sfogare il loro bieco istinto.
Intaccare gli stereotipi funzionali a una narrativa convenzionale non è affatto facile. Prevale in genere l’immagine del carcere come luogo di violenza e di sopraffazione, di lotta per il potere tra detenuti e guardie carcerarie, a cui consegue un’ansia che si può placare solo con l’idea di sorvegliare e di punire. Il detenuto “non può mai migliorare”, come gli animali è incapace di ragionare e di elaborare poi le proprie riflessioni, possiede come unico strumento di comunicazione la violenza e nulla più. Eppure, nonostante talvolta il detenuto appaia oggettivamente scoraggiante, uno sguardo diverso non è impossibile.
L’idea di scrivere i racconti è nata dalle stupende fotografie di Gaetano Pezzella, che a Rebibbia ci lavora da tempo, e dal resoconto informale del lavoro che alcuni di noi svolgono nel carcere. Guardando le fotografie è nata per prima la domanda su chi fossero le persone ritratte; soltanto dopo, osservando l’espressione di quei visi e il loro sguardo di fronte alla macchina fotografica, si è provato a immaginarne la storia.
Si voleva comprendere per quale ragione avessero accettato che gli venisse ‘rubata’ l’anima per presentarla poi davanti a un pubblico di sconosciuti del tutto estranei al loro mondo chiuso, dimostrando di essere disposti a venire una volta ancora giudicati.
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