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Bada Come Parli
Premessa
“L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia”: così esordisce il Manzoni nella sua Introduzione ai Promessi Sposi. Bene, la Lingua è come la Storia: anche lei ha i suoi personaggi, che sono le parole. Imprigionate nel vocabolario, esse vengono continuamente prelevate, quali con maggiore, quali con minore frequenza, molte sono divenute davvero dei cadaveri, altre invece restano lì sepolte in un sonno secolare, finché magari qualcuno non le risveglia. Dice Orazio nell’Arte poetica:
Come negli anni mutano le foglie,
così passano pure le stagioni
delle parole: le vecchie tramontano
e salgono le giovani. Alla morte
siamo votati, tutti, uomini e cose…
Come dunque potrà durare eterna
la viva autorità delle parole?
Molte, già spente, rigermoglieranno,
e le presenti moriranno, quando
così lo voglia il bisogno, che regola
a capriccio le leggi della lingua.
Quali strumenti dell’uomo le parole ne racchiudono la storia, sicché seguire le loro vicende significa approfondire la conoscenza di noi stessi e della verità. Ben lo sapevano i Greci, che dedicarono una grande attenzione allo studio dell’etimologia, convinti che le parole fossero pienamente aderenti agli oggetti che rappresentavano e che quindi, risalendo al loro significato originario, si potesse cogliere l’essenza stessa delle cose (etimologia significa infatti “studio del vero significato dei vocaboli”). Ecco quindi come dalla linguistica si può sconfinare non solo nella storia ma anche nella filosofia, nella religione, nella scienza, nell’arte e in qualunque altro campo della ricerca e del sapere umano.
Ma il linguista fa qualche cosa di più, perché risalire alle origini delle parole significa scoprire i motivi che le hanno ispirate, i nostri impulsi, i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre meraviglie, le nostre paure. Sentite lo sgomento che c’è in questo verso di Ennio:
Africa tèrribilì tremit hòrrida tèrra tumùltu.
L’Africa tutta tremò nel tremendo tumulto di guerra.
E da dove proviene questa sensazione? In parte dal ritmo, che però è tipico dell’esametro latino, ma soprattutto dal suono di alcune consonanti (otto r, sei t) e dalla parola tumultu, che ha tre u, l’ultima delle quali suona, alla fine del verso, come un segnale inesorabile di paura. La traduzione, nello stesso metro latino, non è meno efficace.
Il linguista fa con le parole quello che lo storico fa coi personaggi: le fa rivivere, le induce a raccontare la loro nascita, le loro trasformazioni, le passa in rassegna, le schiera in battaglia, le studia, le analizza, intus et in cute, con una imparzialità che generalmente non possiede lo storico, il quale molte volte compie delle operazioni arbitrarie, interpreta i fatti dal suo punto di vista, infonde nei personaggi dei sentimenti, dei pensieri, delle intenzioni che essi magari non avevano, come fa il Manzoni con Adelchi o col conte di Carmagnola. A differenza dello storico il linguista non ha a che fare con quel guazzabuglio che è l’animo umano, perciò è più obiettivo, anche se pure lui non di rado prende delle cantonate. Ma non offende nessuno.
Il vocabolario è come un immenso esercito di soldati pietrificati e perciò, a differenza di tutti gli altri libri, sembra privo di vita, incapace di suscitare sentimenti, di stimolare i sensi e l’immaginazione. Massimo Bontempelli lo definiva scherzosamente un “cimitero in ordine alfabetico”, e d’Annunzio a chi si stupiva che anche delle persone professionalmente colte si esprimessero spesso scorrettamente, rispondeva: “Perché nessuno in Italia vuole leggere e studiare il Vocabolario”.
La storia delle parole è collegata con quella delle cose: non si ricostruisce l’una se non si chiarisce l’altra. Worter und Sachen (parole e cose): questo è il metodo della linguistica moderna. Ugo Ojetti diceva: “La vita e la morte di una parola corrispondono anche alla vita e alla morte di un tipo”. Certi vocaboli, come sciuscià, per esempio, evocano subito un determinato clima storico; la loro scomparsa sta a significare che quel clima ormai non c’è più. Ogni parola, insomma, ha una sua storia, spesso più affascinante di un libro di favole o di fantascienza.
Furono queste considerazioni, oltre che la diffusa avversione dei giovani per il vocabolario, che parecchi anni fa mi fecero venire un’idea. Perché, mi chiesi, non farle parlare le parole? Perché non animarle e dar loro la voce, come se fossero dei personaggi reali? Il vocabolario, del resto, è già un libro che “dà voce” alle parole, derivando dal latino vocare, “chiamare”, collegato a vox-vocis, e “voce” è termine usato anche nel significato di vocabolo. Poiché collaboravo già ad alcuni programmi radiofonici della RAI, ideai una rubrica dal titolo La parola alla parola!, che venne inserita nella trasmissione “La radio per le scuole”, e più precisamente in Senza frontiere. A quella rubrica seguì più tardi, per “Qui Radio 2” (a cura di Giovanni Gigliozzi), Parole alla sbarra, in cui presentavo, sempre in veste di personaggi, parole ed espressioni allora di moda (come cioè, contesto, al limite, nella misura in cui), processandole in un tribunale, con tanto di Accusa e di Difesa. La prima rubrica ebbe un tale successo che andò avanti per circa otto anni, sino a quando “La Radio per le scuole” chiuse i battenti, la seconda per tutta la durata di “Qui Radio 2”. Ma queste sono rubriche che possono andare avanti all’infinito ed essere sceneggiate anche per la televisione (come alcune da me realizzate per una Rete privata). Posso dunque dire che in questo campo sono stato un pionere.
Ebbene, qualche anno più tardi da quella mia idea Luciano Rispoli (che curava per la RAI alcune trasmissioni a cui collaboravo anch’io: Gli amici delle 12, Cronaca Minima e Il Girasketch), passato dai programmi leggeri alla direzione del Dipartimento Scuola Educazione, dopo aver mandato in onda un revival della “Radio per le scuole” (con una mia intervista e uno dei miei sceneggiati), ricavò per la televisione Parola mia, che, pur non presentando le parole come personaggi, aveva una evidente analogia con La parola alla parola! Un plagio, tanto più riprovevole perché l’autore via via andò facendo man bassa di tutto il materiale che io avevo prodotto, attribuendosi pubblicamente la paternità di quella mia idea, nonché il merito di essere stato il primo ad aver trovato la “formula magica” per “coniugare il divertimento con la cultura”. Vane furono le mie proteste, ma lui non mi chiamò nemmeno a collaborare, anzi, a completamento dell’opera, la sua assistente ebbe anche una rubrica su un settimanale per una serie di articoli sulla etimologia delle parole, che attingevano sfacciatamente a quelli miei pubblicati su riviste della RAI.
Da Parola mia al Campionato nazionale della lingua italiana il passo fu breve, e anche quella trasmissione mostrava una evidente analogia con un’altra mia rubrica, A colpi di analisi logica, in cui due giovani gareggiavano fra loro scambiandosi domande sugli elementi della proposizione (del tipo: “Io?”. “Soggetto”. “Contesto?”. “Predicato verbale”. “La tua opinione?”. “Complemento oggetto con attributo”…).
Quella volta scrissi una lettera a Gianni Minoli e dopo quindici giorni la trasmissione veniva sospesa. Ho riferito questi due episodi (e potrei citarne altri relativi alla mia trentennale collaborazione con la RAI) per restituire a Cesare quel che è di Cesare e perché qui ho avuto l’occasione di farlo pubblicamente.
Posso dire di essermi interessato alla lingua italiana fin da quando con la mia famiglia paterna cominciai a percorrere in lungo e in largo tutta la penisola (mio padre era ufficiale di carriera), passando da una regione all’altra (una dozzina) e frequentando sempre scuole diverse. Ma tutti quei trasferimenti, che spesso si verificavano nel corso dell’anno scolastico, se sotto certi aspetti mi hanno nociuto, dandomi un senso di instabilità, di precarietà e di straniamento, sul piano della lingua mi hanno arricchito, per l’apporto che ad essa hanno dato i vari dialetti con cui venivo a contatto (il bresciano, il napoletano, il bolognese, il romano, il siciliano, il fiorentino, il modenese, il mantovano, il bergamasco e, ultimo, il calabrese), un contatto che però non ha minimamente intaccato il mio parlare nella lingua nazionale, come allora m’insegnavano l’amor di patria e il senso della fratellanza e dell’unità.
Mi sono dedicato alle ricerche sulla parola, sulle sue origini e sulla sua storia, convinto che esse siano il fondamento della cultura, finché, fatto più maturo dalle traduzioni dal greco e dal latino, che da quasi trent’anni vado eseguendo e pubblicando, ho deciso di scriverci sopra un libro, non una storia, perché di storie della nostra lingua ne esistono tante (basti fra tutte quella di Bruno Migliorini), bensì una raccolta di notizie e di riflessioni, con l’aggiunta di articoli e di alcuni esemplari di sceneggiati già scritti, come accennato, per la RAI. E poiché dalla linguistica alla letteratura e alla storia, come pure al costume e alla filosofia, il passo è breve, vi ho inserito anche alcune note di carattere generale e personale, che mi auguro non dispiaceranno ai lettori, perché, come ha scritto Dino Provenzal nel suo volumetto Curiosità e capricci della lingua italiana (1961), “se un libro contiene qualche cosa più di quanto il titolo non prometteva non è male: male sarebbe il contrario”.
Sulle parole nel corso della storia si sono spese tante di quelle parole che a volerne parlare c’è da perdere la testa. Le frasi, i motti, i proverbi, le definizioni sulle parole, e sulla parola in generale, sono innumerevoli. La parola è lo strumento principale dell’uomo, che senza di essa sarebbe un animale come gli altri. Eppure gli animali, come le piante e tutte le altre cose sono nate dalla parola.
“In principio era la Parola, la Parola era presso Dio, la Parola era Dio: tutte le cose sono nate da lì”.
Così esordisce Giovanni nel suo Vangelo, e così dicono pure testi sacri di altre religioni, ma la Chiesa cattolica per Parola intende Gesù (la “Rivelazione”). Dunque se la Parola è Dio, e Dio è ab aeterno ed infinito, il numero delle parole è infinito. Se poi si pensa che ogni parola può essere anagrammata (anche senza un significato è sempre una parola), e che questa operazione si può fare in tutte le lingue del mondo, c’è veramente da impazzire (se per d’Annunzio “il pensiero ha per cima la follia”, ciò vale anche per la parola). Roma, per esempio, una parola di quattro lettere, anagrammata diventa: amor, ramo, mora, orma, oram, arom, armo, moar, maor, maro, roam, raom. Sono tredici parole. Bastano tre lettere in più, come in Jehovah, che ne vengono fuori 721.
Pensate un po’ quante possono venirne fuori da precipitevolissimevolmente, un avverbio di 26 lettere, inventato al posto di precipitatissimamente per formare un verso endecasillabo in una poesia: La Cortona convertita di Francesco Moneti, nel 1677. Ma, sempre nella lingua italiana, c’è una parola più lunga: psiconeuroendocrinoimmunologia, che ha 30 lettere e 13 sillabe, che appartiene al lessico medico-scientifico. La lingua che possiede le parole più lunghe è quella tedesca, di cui la più lunga è Donaudampfschifffahrtsgesellschaftskapitänskajütentürsschlüssel, che è la chiave per aprire la porta della cabina di una nave. Nell’Ecclesiaste, il libro più pessimistico del mondo (che per la Chiesa cattolica, insieme a tutta la Bibbia, l’ha “dettato” Dio), Qohélet dice: “Un infinito vuoto, un infinito niente, tutto è vuoto niente… Si stanca qualsiasi parola, di più non puoi fargli dire. Niente di nuovo sotto il sole”. E invece, dopo tanti secoli, d’Annunzio scriverà: “O parole, mitica forza della stirpe fertile in opre, io vi trassi con mano casta e robusta dal gorgo della prima origine… Io vi disposi nei modi dell’arte così che la vita vostra rivelò le segrete radici, le innùmere fibre che legano tutta la stirpe alla Natura sonora”. Per non dire delle parole che si è inventato il “Vate”, come aulente, velivolo, automobile e tramezzino. Alcuni studiosi hanno fatto un calcolo, approssimativo, del numero di parole che usiamo ogni giorno: gli uomini ne usano, in media, circa settemila, le donne, che sono piuttosto bisbetiche (indomabili, non come quella “domata” di Shakespeare), ne usano, in media, ventimila. “La donna è mobile qual piuma al vento, muta d’accento e di pensier”.
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