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Togliamo Cristo dalla croce

Prologo

Questo romanzo trae lo spunto dal ritrovamento di un Cristo ligneo senza la croce, alto 40 centimetri, che nell’ottobre del 1979 un ambasciatore della Repubblica di San Marino, referendario della Santa Sede, trovò abbandonato in un cassetto nella residenza estiva del patriarcato greco-melchita cattolico di Ain-Trez, nel Libano. Ne parlarono i giornali di tutto il mondo: il Cristo fu analizzato da molti esperti, i quali giunsero alla conclusione che quella scultura lignea era di Michelangelo, che nella realizzazione delle sue opere seguiva le regole della “divina proporzione”, secondo la quale, per fare un esempio, se il corpo di un uomo è alto 1 metro e 62 centimetri e il suo ombelico è a un metro d’altezza da terra, le sue proporzioni sono perfette, conformemente ai canoni della bellezza greca, che riguardano non solo l’Arte ma anche la Natura. È il “numero d’oro”, indicato con la lettera greca phi, dall’iniziale di Fidia, il grande scultore che lo tenne presente nella realizzazione delle sue sculture e nella costruzione del Partenone.

L’ambasciatore affidò quella scultura al presidente di una Fondazione all’interno della quale io ero responsabile del settore Letterario-Culturale del “Libero Ateneo Internazionale per lo studio del mistero dell’uomo e lo sviluppo delle sue potenzialità”. Io, che allora, fra le varie attività che svolgevo, anche alla Rai, dirigevo la rivista Cultura (organo dell’“Istituto Europeo per le Politiche Culturali e Ambientali”, di cui ero vice presidente), ne parlai spesso, anche alla Pontificia Università Lateranense, il cui Rettore indirizzò alla Fondazione la seguente lettera:

“È per me ancora viva la grande emozione per quanto mi avete esposto sul Cristo ligneo di Michelangelo con le braccia e lo sguardo rivolti verso il cielo. Per quanto riguarda l’impegno che l’Università ha assunto, ribadisco ciò che abbiamo concordato: nel periodo pasquale del prossimo anno l’Università potrà essere la sede dove far convenire studiosi ed esperti per condividere questa grande scoperta che mi sembra debba essere fatta conoscere non solo nell’ambito accademico-scientifico, ma a livello il più grande possibile, universale”. Nell’anno successivo, sempre alla Lateranense, ci trovammo entrambi insieme quali relatori in un convegno su quella inaspettata, significativa e misteriosa scultura, presa subito di mira dai soliti denigratori e travisatori della stampa italiana, e, conseguentemente, dalla magistratura, che, per non fare lei quello “sporco lavoro”, manda in avanscoperta i giornalisti, come scrisse Ugo Betti nel suo dramma Corruzione al Palazzo di Giustizia: “Il Palazzo è la miniera, è il pozzo, è il nido del malcontento, dei sussurri. Comincia uno a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti, è come una cancrena che si allarga”.

Per quel che riguarda l’autenticità di quel Cristo ligneo senza la croce aggiungerò che diversi anni prima avevo letto alcune biografie su Michelangelo, fra le quali quella di Valerio Mariani edita dalla UTET, che dopo quella scoperta andai a rileggere, ricavandone la convinzione che Michelangelo auspicasse davvero l’avvento di una religione universale, che eliminasse i simboli, anticipando ciò che alcuni secoli dopo avrebbero scritto altri (come più avanti dirò).

Ebbene, prendendo lo spunto non solo da quel Cristo ligneo ma in generale dalle opere di Michelangelo, dai loro simboli e dai loro significati, nonché dall’atteggiamento del grande Artista nei confronti della Chiesa e della Riforma protestante, dalla sua adesione al circolo degli Spirituali di Viterbo e dai suoi colloqui con la marchesa Vittoria Colonna e col cardinale Reginald Pole, ritenni di poter vedere in quella scultura un messaggio di Michelangelo, come se egli avesse tolto Cristo dalla croce per farne uno strumento di unione fra tutti i credenti, visto che il Crocifisso è sempre stato, e tanto più lo è oggi, uno strumento di divisione della nostra religione dalle altre, e ciò provoca spesso atti di terrorismo contro le nostre chiese e addirittura stragi di cristiani, oltre all’eliminazione del crocifisso dalle aule scolastiche e dagli uffici pubblici (quando alcuni non lo buttano nella spazzatura).

Ora, se è vero che il Cristianesimo, con un Dio che sacrifica se stesso, sulla croce (a immagine dell’uomo che soffre, che si avvilisce e muore), vale più delle altre religioni, non per questo la Chiesa cattolica deve avere la presunzione di essere la migliore, “Maestra suprema, insuperabile, infallibile, unica e sola, di verità”. L’umiltà è una delle doti principali del Cristianesimo, dunque la nostra Chiesa si avvicini, chiaramente e concretamente, alle altre religioni, promuovendo lei stessa quell’unione tra i credenti di tutte le altre Chiese, ai fini di una religione universale. In questo modo diminuirebbero o finirebbero addirittura gli attentati contro i cristiani, i quali (questo non va dimenticato) in passato fecero le “crociate” contro gli “infedeli”, cioè contro i credenti di altre religioni, per non parlare dei roghi, delle scomuniche e delle accuse di eresia se un cristiano mette in dubbio anche un solo dogma della sua dottrina, com’è accaduto a me. Incominciai così a scrivere un romanzo su Michelangelo e su quel Cristo ligneo, ma, in tutt’altre faccende affaccendato, fra la scuola ed altre attività, oltre che dagli scritti di altri libri, per un trentennio è rimasto in un cassetto, incompleto (un centinaio di pagine) finché recentemente l’ho ripreso e finalmente l’ho portato a termine.

Devo precisare che certe volte, istintivamente, ho attribuito a Michelangelo certi miei pensieri, ma l’ho fatto, lo dico chiaramente, per evitare che la Chiesa, o qualche suo prelato, mi accusi di eresia, come hanno fatto certi sacerdoti nelle varie parrocchie che ho frequentato da bambino e da ragazzo, i quali, non sapendo come rispondere ai miei dubbi ed alle mie domande, mi dicevano “Vade retro Satana!”, e, cercando di convincermi, mi accarezzavano e tra il serio ed il faceto infilavano la mano fra le mie cosce nude.

Servendomi perciò di Michelangelo, di cui nessuno può negar la gloria, ho raccontato in parte pure la mia storia. E così, come sempre ho fatto, ripeterò sino alla tomba il motto: “Col Padreterno me la vedo io”.

La Chiesa cattolica deve rinnovarsi, deve parlare un altro linguaggio, non sono più accettabili certe sue affermazioni, come quando dice che la Bibbia (con tutti gli errori, le incoerenze e le assurdità che contiene) è “Parola di Dio”, nel senso che “l’ha dettata Lui personalmente ai profeti come un capo d’azienda detta una lettera alla sua segretaria”, o che “non si può raggiungere con le sole forze umane una salvezza che al cristiano è stata guadagnata e offerta gratis dal suo Dio”, dove quel “suo” indica una palese discriminazione ed è una forma di razzismo religioso. Non si può definire tutto ciò che non rientra nel rituale della Chiesa cattolica “il patetico bagaglio del povero, più che il traboccante tesoro del ricco” (come ha scritto Vittorio Messori). Il Cristianesimo rappresenta senza dubbio l’aspetto più alto, più sublime e più poetico di Dio, ma Dio non è soltanto amore, bontà, misericordia, sacrificio, redenzione e riscatto da un (presunto) peccato originale dell’uomo, è anche, soprattutto e principalmente, Scienza, Creatore di un mondo che non è nato dal nulla, come sostiene la Chiesa cattolica, ma dal grembo stesso di Dio, in base a leggi ben precise, a cui fanno riferimento non solo altre religioni, ma il Cristianesimo stesso, quando dice, nel Vangelo di Giovanni, che “Dio era la Parola”, cioè una serie di suoni, o un’energia vibratoria e sonora, e che tutte le cose sono nate da lì, dalla Parola. Mosè nell’esordio della Genesi, in ebraico, dice “Dio formò il cielo e la terra”, perché la Chiesa traduce creò, aggiungendo “dal nulla”? Anche “creare” significa “dare forma” a ciò ch’esiste già in un’altra dimensione e non si vede, come un’idea, un concetto, l’immagine di un quadro o di una scultura.

È giunto il tempo di una riscoperta del Cristo in una nuova prospettiva, che senza escludere quella tradizionale costituisca una sorta di passepartout in grado di consentire a tutti i fedeli, cristiani e non cristiani, di accostarsi a Dio con una visione più piena e più coerente. In un mondo avviato verso una delle più grandi trasformazioni della Storia, Cristo può costituire l’elemento unificatore di tutti i popoli e di tutti i credenti, in particolare quale punto di riferimento, guida e conforto dei diseredati e degli oppressi che vanno in cerca di una nuova patria, ospitale e generosa, a condizione, però, che Egli sia ricondotto alla sua immagine originaria, quella del Christus triumphans, non del Christus patiens quale poi è diventata: un Cristo, appunto, senza la croce, con le braccia e lo sguardo rivolti verso l’alto nell’atto della sua ascesa al cielo.

Più di vent’anni fa, nel corso di un seminario interreligioso dal titolo Misticismo sivaita e misticismo cristiano tenutosi a Rajpur, un sacerdote cattolico, Raimon Panikkar, considerato uno dei più grandi pensatori del nostro tempo e punto d’incontro fra l’Oriente e l’Occidente, dopo avere affermato che “il mistero di Cristo si manifesta anche in altre religioni attraverso simboli aventi una funzione equivalente, come l’immagine della Trinità”, si chiedeva se non fosse necessario “distruggere i simboli delle religioni per instaurare i presupposti sui quali poggia la rivelazione cristiana”. Da parte sua John Spong in Un appello per una nuova riforma (della Chiesa cattolica) sosteneva la necessità di “ripensare ai segni fondamentali e distintivi del Cristianesimo, che, abbandonata qualunque altra preoccupazione, quali l’autorità, l’organizzazione ecclesiastica, le investiture e i sacramenti, vada al cuore del problema, esaminando la natura della fede cristiana stessa, in un mondo che va facendosi sempre meno religioso”. E così concludeva: “La visione della croce come sacrificio per i peccati del mondo

è un’idea barbara, basata su un concetto primitivo di Dio, e deve essere abbandonata”.

Come ho accennato, in questo romanzo non manca un pizzico di fantasia, non nel senso di immaginazione o di irrealtà, ma solo perché, come fanno molti scrittori che s’identificano nei protagonisti, mi ci sono infilato, velatamente, anch’io, perché in tutti i libri che ho letto su di lui, come pure in altri, ho intravisto, o ritenuto di vedere una parte di me.

Questa dunque non è solo una storia di Michelangelo, è anche il quadro o la cornice di quel periodo, che fa da sfondo al Cristo ligneo, con notizie che attinsi, e che appuntai, parecchi anni fa, persino dalla Biblioteca Vaticana, che frequentai grazie al lasciapassare di un Monsignore, amico mio carissimo, che condivideva il mio pensiero, e che scrisse un libro sulla dottrina della Chiesa intitolato A modo mio. E tale è il sottotitolo di un mio poemetto La Genesi a modo mio.

L’immagine di Cristo inchiodato ad una croce mi ha sempre turbato, fin da quando ero bambino, specialmente durante la messa, quando nel corso di tutta la funzione lo vedevo campeggiare accanto all’altare. All’età di quindici anni cominciai a tenere un diario, a cui, sull’esempio di Sant’Agostino, diedi come titolo Le mie confessioni, in cui andavo manifestando, insieme ai miei dubbi e ai miei interrogativi, il mio amore per Dio e per Gesù.

Devo inoltre precisare che il primo capitolo del romanzo, Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico, è la trascrizione fedele di uno dei numerosi sceneggiati radiofonici che per un trentennio, a partire dal 1950, scrissi per uno dei vari programmi culturali della RAI, ideati da me, intitolato “Al tempo di…” e dedicato alla “Radio per le scuole”. Dico questo non per vanteria ma affinché i lettori vedano qual era già allora la mia cultura.

Il parlare fiorentino che ho messo in bocca ad alcuni personaggi del romanzo l’ho appreso nel periodo in cui sono vissuto a Firenze, quando, oltre alle ragazze, frequentavo il liceo ‘Galileo’. Quanto a Gesù spogliato della croce, proprio in quel tempo (avevo 15 anni) gli dedicai questo sonetto:

 

O mio veneratissimo Gesù,
quando ti vedo infisso nella croce
quell’immagine tua non mi va giù:
sembra quasi un’offesa, un atto atroce,
simile al male che hai sofferto tu.
Come posso sentire la tua voce
quando in effetti tu non ci sei più?
Perciò la cosa tanto più mi nuoce.
Tu non sei che un’immagine di Dio,
ma un Dio morto, piagato e insanguinato,
mi fa venire un tale brividìo
che mi lascia confuso e sconsolato.
Innalzati, perciò, Figlio di Dio,
come nei primi tempi eri effigiato.

 


 

L’idea di togliere Cristo dalla croce risale a tempi lontani, poiché agli inizi del Cristianesimo Cristo era raffigurato senza la croce: un Christus triumphans, trionfante, con le braccia e lo sguardo verso il cielo, in quanto è vero che è morto inchiodato sulla croce, pieno di piaghe e di sangue, ma ha trionfato sulla morte, risorgendo col corpo e risalendo in cielo, da dove era venuto, “seduto” (così dice la Chiesa cattolica) “alla destra del Padre onnipotente”, distinto e separato da Dio, quando la ragione ci dice che Cristo era Dio stesso nella sua veste umana più vistosa e sublime. Successivamente nella iconografia il Christus triumphans fu sostituito dal Christus patiens, cioè “sofferente” (e il Cristianesimo divenne la religione del dolore e della morte, avente come simbolo un’immagine “macabra” e “barbara”, così definita anche da alcuni teologi). È da moltissimo tempo, per non dire da secoli, come dimostra appunto il Cristo ligneo di Michelangelo, che circola in tutto il mondo questo appello alla Chiesa cattolica, di togliere Cristo dalla croce. Fra l’altro lo testimonia una delle tradizioni più antiche del Venerdì Santo in Spagna, dove in alcune località veniva messo in scena il “desclavament” di Gesù dalla croce, con l’accompagnamento di una banda musicale che rimase in silenzio nel momento della deposizione.  Sarebbe dunque ora che la Chiesa cattolica, che va perdendo sempre più fedeli, anche a causa delle stragi che subiscono dagli islamici (che hanno persino buttato il crocifisso, il “cadaverino”, nella spazzatura), si decidesse a compiere questa “rivoluzione”, che riguarda anche lo spirito, in vista di una religione universale, in cui non ci sia Chiesa alcuna che possa dichiararsi “Maestra suprema, insuperabile, unica, sola ed infallibile di verità”, definendo il suo Capo “Dio sulla Terra”, “Vicario di Cristo”, quando, stando alla Bibbia, Dio stesso e Cristo hanno detto agli uomini “Voi siete dèi”. È inutile che la “santa” Chiesa, che spadroneggia su Internet, si almanacchi o si arrampichi, come sempre, sullo specchio, interpretando “dèi” nel senso che “Dio ha posto alcune persone in posizioni di autorità, per cui sono considerate come dèi”.

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  • Mario Scaffidi Abbate

    Mario Scaffidi Abbate è nato a Brescia il 18 gennaio del 1926. Ingegno precoce e molteplice, fin da bambino ha mostrato predisposizione per la poesia, per il disegno e per la musica: a cinque anni cominciò a studiare il violino, sostituito in seguito dal pianoforte, nel 1936, avendo ascoltato dalla viva voce del Duce, vestito da balilla e inquadrato nel suo plotone, la proclamazione dell’Impero, scrisse su quell’avvenimento alcuni versi che il padre fece pervenire a Mussolini, il quale volle conoscerlo e gli strinse la mano nella famosa Sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia. Di lì a sette mesi scrisse un’altra poesia dedicata a Giuseppe Bottai, in occasione della sua nomina a ministro dell’Educazione Nazionale, il quale gl’inviò una lettera di ringraziamento.

    Nel corso della sua carriera scolastica ha saltato tre classi: la quinta elementare, la seconda del ginnasio e la terza del liceo classico. A dodici anni vinse il primo premio in un concorso internazionale di pittura con un acquerello rappresentante una dama e un cavaliere. A Palermo ricevette la medaglia d’argento per aver riportato la migliore votazione fra tutti gli alunni della scuola, al liceo “Galileo” di Firenze ebbe fra i compagni di classe Giovanni Spadolini, nel settembre del 1943, ad Orvieto, si arruolò come legionario nei Battaglioni M della RSI.

    Ha esordito nella letteratura e nel giornalismo nel 1946, scrivendo articoli per il Corriere di Calabria e il Giornale di Sicilia e tenendo conferenze in due associazioni, la LI.AS.GO. (Libera Associazione Goliardica), di cui dirigeva il settore culturale, e la F.I.L.I (Federazione Italiana Liberi Intellettuali). È stato istitutore assistente al Convitto Nazionale “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria e nel 1947 ha pubblicato un saggio, Sopra un’ode di Orazio, e un poemetto, La Virtù, in cui descriveva le discordie del nostro paese. Ha fatto parte della compagnia teatrale della città, debuttando come protagonista nella Locandiera e in Due dozzine di rose scarlatte e partecipando, nel 1948, ad un concorso al teatro “Rossini” di Pesaro come protagonista in Romanticismo di Girolamo Rovetta, piazzandosi, come singolo attore, al primo posto e ottenendo il plauso della giuria, presieduta da Anton Giulio Bragaglia.

    Conseguita la laurea in Lettere classiche nel 1948, ottenne una supplenza al Convitto Nazionale “Cesare Battisti” di Lovere, quindi al Convitto Civico di Castiglione delle Stiviere (in cui ebbe come alunno il futuro attore Mario Maranzana) e successivamente l’incarico al Convitto Nazionale di Roma, finché, vinto il concorso, ottenne la cattedra d’italiano e latino nei licei statali, mantenendo tuttavia alcune ore al Convitto Nazionale, in cui rivestì quasi sempre l’incarico di vice preside (e per un anno di preside alla scuola Media), nonché quello di segretario del Sindacato del Convitto Nazionale, contribuendo, insieme con un onorevole, alla statalizzazione delle scuole in tutti i Convitti Nazionali e all’accesso, come alunne esterne, anche alle donne.

    Ha collaborato per una trentina d’anni a diversi programmi radiofonici della RAI, leggeri, diretti da Luciano Rispoli (Gli amici delle 12, Cronaca minima e Girasketch), e culturali, diretti da Giovanni Gigliozzi e Giulio Cattaneo, con sceneggiati originali, di carattere storico (Le svolte della Storia, I grandi antagonisti, Al tempo di…) e linguistico (La parola alla parola! e Parole alla sbarra, in cui, primo e forse unico al mondo, ha dato voce alle parole stesse raccontandone la storia, e da cui Luciano Rispoli, plagiandolo, trasse la trasmissione televisiva Parola mia). Sempre per la RAI ha collaborato alla Terza Pagina del settimanale televisivo Trentaminuti giovani, ha recensito più di cento libri per la rubrica Libri ricevuti, con interviste ad alcuni degli autori, fra cui Salvator Gotta, Ungaretti e Bevilacqua. Contemporaneamente ha collaborato a due riviste, sempre della Rai, Sintonia e La radio per le scuole.     Ideatore di uno ‘sposalizio’ della poesia con la musica anche nell’insegnamento, è stato intervistato per la Rai da Pippo Baudo e Oreste Lionello nel corso di una sua lezione su Leopardi, mentre recitava il Canto notturno accompagnato dal Chiaro di luna di Beethoven.

    Lasciata la Rai, perché richiesto di iscriversi al Partito Socialista (c’era al Governo Craxi), ha svolto la sua attività presso altre reti televisive, realizzando programmi per la TEF di Perugia (fra cui Parola spia: fuori il verso! e rEstate con noi con Oreste Lionello) e partecipando ai dibattiti culturali di Teletevere e di Televita.

    Ha fatto parte del “Comitato Ministeriale per la salvaguardia della lingua italiana” (insieme a Tullio De Mauro e Giovanni Nencioni), ha scritto articoli per diversi giornali e riviste, fra cui Telesera, il Tempo, il Secolo, il Giornale d’Italia, Voce Romana, Umanesimo del lavoro e Ieri, oggi e domani. Ha collaborato alla “Grande Enciclopedia di Roma” con la voce “Imperatori”.

    Accademico Tiberino e membro della Norman Academy, ha ricevuto premi e riconoscimenti, fra cui il Premio Nazionale Excelsior, il Premio Nazionale Roma Alma Mater, il Premio Alma Pales, il Premio Excellence Award per il Giornalismo e il primo premio in un concorso internazionale per la poesia col volumetto Elogio della Follia. Ha diretto il periodico CULTURA (organo dell’Istituto Europeo per le Politiche Culturali, di cui era vice presidente) e il Conciliatore nuovo da lui fondato al fine di contribuire alla conciliazione degli Italiani, è stato vicedirettore della rivista bilingue MyTime, e attualmente collabora al quotidiano l’Opinione e a due riviste giuridiche, Foro Romano e Temi Romana. Ha coltivato anche la musica e pubblicato un disco con l’editrice Fonola, contenente due canzoni trasmesse dalla Rai.

    Ha al suo attivo un centinaio di pubblicazioni, senza contare i libri che sono rimasti inediti perché troppo intimi e personali. Fra quelli pubblicati, costituiti da romanzi, saggi, poesie, testi teatrali e traduzioni, i più importanti, oltre ai primi due sopracitati, sono: Caos, La scuola di Babele, Italieide, Matureide, Il mitico numero 7, L’Italia dei Caffè, (recensito su due reti della Rai con intervista all’autore e di cui è andato in onda un suo sceneggiato televisivo su Rai Uno), Il mondo dello yoga, Avanti march!, Elogio della saggezza (che gli è valsa la partecipazione al programma Uno mattina della Rai), Il mistero del Cristo senza croce, Le porte dell’Infinito, Il Signore si diverte, La grande bellezza degli Italiani, Lettera a una scolaresca, Brandelli d’Italia, Il Fascismo in presa diretta, I gloriosi Caffè storici d’Italia, La gatta (Anatomia d’un amore), Perdonami, papà, Fratelli d’Italia (Elezioni politiche 2018), la Bibbia in versi endecasillabi, sfrondata del superfluo, con una ricca introduzione critica, Convittiade, Italiani strana gente (in collaborazione con Arturo Diaconale), La nascita dell’Universo (una visione scientifica di Dio e della Creazione), “Nave senza nocchiere in gran tempesta” (storia d’Italia in versi dalle origini ai giorni nostri), Togliamo Cristo dalla croce (un romanzo su Michelangelo), I grandi mali della Santa Chiesa, La Divina Tragedia, In principio era la Parola (la Genesi a modo mio), Il calvario di un povero cristo alla ricerca di Dio, A te l’ultimo canto, Orestiade, Povera e nuda vai, o Poesia. Fra gli sceneggiati: Robinson degli oceani, Giovanna alla riscossa, Una storia vera, Robinson Crusoe, I Promessi sposi, Le mie prigioni, Sigmund, l’eroe vikingo.

    Per la Newton Compton ha tradotto e pubblicato: Tutte le opere di Orazio, l’Eneide (di cui è stata messa in scena una drammaturgia), le Bucoliche e le Georgiche, Le commedie di Terenzio (in versi), Tutte le opere di Seneca, Il fato e La superstizione di Plutarco e, sempre dello stesso autore, Consigli per i politici, L’arte di saper ascoltare e, dalle ‘Vite parallele’, Alessandro e Cesare, Demostene e Cicerone, Pericle e Fabio Massimo. Inoltre l’Orator di Cicerone, le Metamorfosi di Ovidio (in versi) e i Pensieri di Marco Aurelio. Tutte le traduzioni sono state ristampate via via in nuove edizioni, anche in e-book, dalla stessa casa editrice e alcune di esse da Mondadori, Rizzoli, Rusconi e Fabbri.

    Ha elaborato e messo in scena con Oreste Lionello tre commedie per il teatro (in cui ha debuttato anche nelle vesti degli autori): le Nuvole di Aristofane, l’Eunuco di Terenzio e Oblomov. Ha sostenuto la parte del Narratore (con testi suoi originali di contenuto storico e letterario) nella parodia musicale Il Gobbo delle Nostre Dame e in 30 anni di clamorosi successi (coi “Pandemonium”), offrendo anche al divertimento il suo contributo culturale.

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