Spedizione gratuita per ordini superiori a 40€

Il conflitto del Nagorno-Karabakh

Con la fine del comunismo si risvegliano le molte e trattenute identità della vecchia Russia; molti Stati dell’Unione Sovietica si sganciano da Mosca, tanti si trasformano in Repubbliche indipendenti. Un processo non senza risvolti tragici, in questa piccola parte del Caucaso la popolazione armena si mobilita, si dichiara repubblica appena l’Azerbaigian esce dall’Unione delle ex Repubbliche Socialiste Sovietiche, cosa che agli Azeri non piace tanto che rispondono con una reazione militare. È delle prime e più tragiche guerre tra ex fratelli, dura fino al 1994 per lasciare spazio a interminabili negoziati di pace. La tregua dura fino al 2020, quando in settembre gli Azeri per quasi due mesi occupano e sparano. Una fase tragica con aperte violazioni dei diritti umani, una guerra feroce alle porte dell’Europa che assiste con fastidio, evita di prendere posizione, anziché fare sentire la sua voce sussurra. La nuova tregua è favorita da Mosca e Putin schiera forze di pace russe al confine tra Azeri e Armeni.

Il conflitto del Nagorno-Karabakh è stato un Vietnam caucasico per l’Armenia e a simboleggiarlo oggi ci sono migliaia di tombe di giovani ragazzi che hanno perso la vita sulla linea del fronte. Le foto sulle lapidi sono quelle di uomini tutti dopo il Duemila. Sulla collina, ogni mattina madri e padri cercano risposte e consolazione, abbracciano le lapidi, accarezzano i nomi dei propri figli incisi sulla tomba, accendono incensi e depongono fiori. Secondo il Rapporto di Amnesty International del 30 ottobre 2020, nel corso dei conflitti nel Nagorno Karabakh sono state utilizzate per colpire i centri abitati bombe a grappolo, vietate dal diritto internazionale dei conflitti armati attraverso un trattato che vincola oltre 100 Stati.

La situazione ancora oggi continua ad essere molto delicata e la stessa comunità internazionale sta cercando, oltre a risolvere la crisi russo-ucraina, in tutti i modi, di trovare una risoluzione definitiva a questa controversia tra azeri e armeni.

 

With the end of communism, the many and withheld identities of old Russia are awakened; many states of the Soviet Union disengage from Moscow, many are transformed into independent republics. A process not without tragic implications, in this small part of the Caucasus the Armenian population mobilizes, declares itself a republic as soon as Azerbaijan leaves the Union of former Soviet Socialist Republics, something the Azeris do not like so much that they respond with a military reaction. It is one of the first and most tragic wars between former brothers, it lasts until 1994 to leave room for endless peace negotiations. The truce lasts until 2020, when in September the Azeris occupy and shoot for almost two months. A tragic phase with open violations of human rights, a ferocious war on the doorstep of Europe which it watches with annoyance, avoids taking sides, rather than making its whispers heard. The new truce is favored by Moscow and Putin deploys Russian peacekeepers on the border between Azerbaijanis and Armenians.

The Nagorno-Karabakh conflict was a Caucasian Vietnam for Armenia and to symbolize it today there are thousands of graves of young boys who lost their lives on the front line. The photos on the tombstones are those of all men after the year 2000. On the hill, every morning mothers and fathers seek answers and consolation, embrace the tombstones, caress the names of their children engraved on the grave, light incense and lay flowers. According to the Amnesty International Report of 30 October 2020, during the conflicts in Nagorno Karabakh cluster bombs were used to hit population centers, prohibited by the international law of armed conflicts through a treaty binding over 100 states.

The situation still today continues to be very delicate and the international community itself is trying, in addition to resolving the Russian-Ukrainian crisis, in every possible way, to find a definitive resolution to this dispute between Azeris and Armenians.

INTRODUZIONE DI EDOARDO PITTALIS (Direttore Responsabile della testata giornalistica “ènordest”, giornalista professionista, per anni voce direttore de Il Gazzettino, autore di diverse pubblicazione e scrittore)

 

Da bambino pensavo che il Karabakh fosse un paese che si trovava soltanto nelle favole. Una zia maestra mi leggeva la favola di Charles Perrault, “Il gatto con gli stivali”, che aveva come protagonista il marchese di Karabas. Una fiaba notissima, forse di tradizione popolare, anche Giovan Battista Basile racconta qualcosa del genere nel suo “Lo Cunto de li Cunti”. Mette in evidenza furbizia e intelligenza. Il gatto era tutta l’eredità del terzo e più povero figlio di un mugnaio, ma era un animale magico, capace di fantasia e astuzia. Gli bastano un cappello, un paio di stivali e un sacco per inventare per il suo padrone un titolo nobiliare e una vastissima regione con un nome di fantasia: Karabas. Naturalmente il figlio del mugnaio sposa la figlia del re e un giorno salirà sul trono. Tutto grazie al Gatto che ha sconfitto l’Orco e ne ha passato le ricchezze al giovane. Finisce come tutte le favole vere: “E vissero tutti felici e contenti”.

Ma era evidentemente un mondo che non esiste, perché nel Karabakh quello reale da decenni nessuno vive più felice e contento. C’era la guerra sino all’altro giorno, rotta oggi da una tregua sospesa: ha causato morti soprattutto tra i civili, ha insanguinato una parte del mondo che non ha pace e che rischia di non averne. La comunità internazionale guarda quasi distratta, è difficile immaginare il futuro di questa parte d’Europa che cerca una sua indipendenza e vorrebbe essere riconosciuta dalla comunità internazionale.

Il Nagorno Karabakh, che si fa chiamare Repubblica di Artsakh recuperando il nome armeno della regione, è un piccolissimo pseudo-Stato caucasico stretto tra l’Azerbaigian e l’Armenia. Uno stato montuoso, anche se la montagna più alta non tocca i mille metri. Non ha sbocchi sul mare, ma ha una posizione strategica nella regione ed un’importanza fondamentale per l’energia. Per avere un’idea si tratta di un’area non più grande della nostra Umbria, ugualmente stretta tra monti e schiacciata da stati più forti. Terra di antica cultura, soprattutto armena, toccata dal Cristianesimo solo nel IV secolo, invasa da Arabi, Tartari, Mongoli, Turchi fino alla consegna nel 1813 all’Impero Russo.

Quando la Rivoluzione Russa trasforma enormi territori nell’Unione Sovietica, la regione viene inglobata nella Federazione Transcaucasica che si divide in Armenia-Azerbaigian-Georgia. Stalin prima assegna il territorio agli Azeri, poi nel 1923 favorisce la creazione dell’Oblast Autonoma del Nagorno Karabakh. Nella realtà non c’è nessuna autonomia, se non nel nome. Il comunismo stringe ogni cosa a Mosca, non lascia spazio alle identità, non c’è apertura per le rivendicazioni. E il Caucaso serve per segnare il confine e la differenza con l’Europa da una parte e il mondo arabo dall’altra. Serve per proteggere risorse naturali e anche per addormentare tensioni che potrebbero esplodere, il genocidio degli Armeni da parte dei Turchi è storia del giorno prima e in giro tanti vorrebbero mettere a tacere la prima strage etnica del Novecento.

È un mondo che continua a bruciare sotto la cenere, soffocato dalla guerra mondiale che costa ai sovietici l’invasione nazista e oltre 50 milioni di morti, poi dalla guerra fredda, dal Blocco dell’Est e dal comunismo che implode fino alla caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989. Con la fine del comunismo si risvegliano le molte e trattenute identità della vecchia Russia; molti Stati dell’Unione Sovietica si sganciano da Mosca, tanti si trasformano in Repubbliche indipendenti. Un processo non senza risvolti tragici, in questa piccola parte del Caucaso la popolazione armena si mobilita, si dichiara repubblica appena l’Azerbaigian esce dall’Unione delle ex Repubbliche Socialiste Sovietiche, cosa che agli Azeri non piace tanto che rispondono con una reazione militare. È delle prime e più tragiche guerre tra ex fratelli, dura fino al 1994 per lasciare spazio a interminabili negoziati di pace. La tregua dura fino al 2020, quando in settembre gli Azeri per quasi due mesi occupano e sparano. Una fase tragica con aperte violazioni dei diritti umani, una guerra feroce alle porte dell’Europa che assiste con fastidio, evita di prendere posizione, anziché fare sentire la sua voce sussurra. La nuova tregua è favorita da Mosca e Putin schiera forze di pace russe al confine tra Azeri e Armeni.

Il problema è ancora lì e il bel libro di Giuseppe Paccione Il conflitto del Nagorno-Karabakh sotto la lente del diritto internazionale accende l’attenzione non sul passato, ma sul futuro prossimo. Qualcosa deve e sta per accadere, ma non può sfuggire questa volta alla comunità internazionale, non può infrangere certezze raggiunte altrove, nemmeno mortificare legittime aspettative. Deve tenere conto di una situazione più che mai delicata, che guarda all’interno dell’ex URSS ma con altrettanta cura al Mediterraneo. Un punto di vista al quale non può sfuggire il ruolo di Putin nello scacchiere mondiale, le forti contrapposizioni nell’area mediorientale, il confronto con nuovi protagonisti della politica, come il turco Erdogan. Il futuro di un’Africa settentrionale, Libia in evidenza, verso la quale Putin e lo stesso leader turco Recep Tayyip Erdoğan hanno mire precise e non nascoste.

È evidente che questa guerra presentata come locale, spacciata spesso solo come un conflitto religioso, è in realtà molto di più: è l’ennesimo confronto indiretto tra la Russia, sponsor dell’Armenia, e la Turchia sostenitrice dell’Azerbaijan. Al centro enormi interessi economici legati alle pipeline di gas e petrolio.

Il piccolo Stato caucasico, non riconosciuto dagli Stati membri della famiglia umana, a questo punto riprende il suo ruolo strategico per tanti motivi, si rivela una specie di cartina tornasole di un futuro ancora da scrivere per parti del mondo distanti e diverse. L’autore s’interroga sulla tutela dei diritti umani, mette bene in evidenza che qui siamo in quello che viene chiamato il buco nero geografico dei diritti delle persone, la zona dove questi diritti non possono essere del tutto garantiti. L’autore va oltre nelle sue domande: si deve scegliere la pace alla giustizia? Si può parlare di guerra come strumento in un mondo del Duemila? La diplomazia fino a che punto deve essere diplomatica?

Giuseppe Paccione ci delinea chiaramente che il popolo del Nagorno-Karabakh può esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione e anche a determinare liberamente il proprio status politico, sposando in pieno le conclusioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite sui rifugiati. Ma sa anche, altrettanto chiaramente, che non si esiste come entità statuale se gli altri Stati non ti riconoscono. E nessuno per ora si è espresso a favore del Nagorno-Karabakh, nemmeno – e questo può sorprendere – l’Armenia. Ora è il momento in cui la comunità internazionale deve dare risposte che non siano soltanto interlocutorie, quelle che l’autore chiama obbligate e non a caso si pone per prima la domanda: la pace è la condizione essenziale al punto, pur di ottenerla, di rinunciare perfino alla giustizia? Tra chi deve dare risposte precise c’è l’Unione Europea.

Giuseppe Paccione scende in profondità per cercare sul terreno a lui più familiare del diritto internazionale: spiega con efficacia come il principio di autodeterminazione dei popoli sia in questo caso in netto contrasto con il principio di integrità territoriale. Da una parte c’è la possibilità di diventare Stato, dall’altra c’è chi si oppone al principio di autodeterminazione. Ma dietro il diritto, come spesse accade, c’è l’economia e questo spiega certe prudenze, qualche titubanza europea, i non pochi balbettii sul pericolo di insicurezza nelle forniture di petrolio e gas. Paccione ricorda come il vertice della compagnia energetica SOCAR abbia fatto sapere che la guerra può compromettere il trasporto di risorse energetiche dal mar Caspio ai mercati globali. Non solo: potrebbe saltare la costruzione del Gasdotto Trans-Adriatico, previsto entro il 2021 e che consentirà di far arrivare gas all’Italia attraverso la Turchia, Grecia e Albania.

L’autore si addentra nella brutalità della guerra, descrive la collina di Yerablur, a Yerevan, imbiancata dalla neve scese nella notte. Sulla collina si trova il cimitero militare e vengono celebrati ogni giorno i funerali dei ragazzi caduti. Secondo le stime governative – ed è in queste pagine un’altra chiave di esplorazione del libro – i soldati armeni morti negli scontri sono più di 3.000, quelli azeri 2.800, ma giornalisti e osservatori internazionali parlano per gli armeni di un numero doppio di vittime in quaranta giorni.

Il conflitto del Nagorno-Karabakh è stato un Vietnam caucasico per l’Armenia e a simboleggiarlo oggi ci sono migliaia di tombe di giovani ragazzi che hanno perso la vita sulla linea del fronte. Le foto sulle lapidi sono quelle di uomini tutti dopo il Duemila. Sulla collina, racconta Paccione, ogni mattina madri e padri cercano risposte e consolazione, abbracciano le lapidi, accarezzano i nomi dei propri figli incisi sulla tomba, accendono incensi e depongono fiori. Secondo il Rapporto di Amnesty International del 30 ottobre 2020, nel corso dei conflitti nel Nagorno Karabakh sono state utilizzate per colpire i centri abitati bombe a grappolo, vietate dal diritto internazionale dei conflitti armati attraverso un trattato che vincola oltre 100 Stati.

Finora tutte le strutture chiamate a controllare e a incoraggiare la pace si sono rivelate inefficaci, l’autore indica una strada: un approccio che utilizzi gli strumenti di soft power, coinvolgendo la società civile dal basso come occasione di incontro culturale e non politico. È in questo che il libro di Paccione si distingue da altri sull’argomento: affronta il tema sotto il punto di vista del comune cittadino che si chiede come si può intervenire nel rispetto del diritto internazionale. Il Nagorno-Karabakh rientra perfettamente in questa tematica. Non dovrebbe essere difficile, ma a renderlo possibile potranno essere soprattutto la coscienza e la volontà delle democrazie internazionali. Perché questo piccolissimo Stato rischia di rivelarsi la punta di un iceberg profondo e in grado di far emergere le ambizioni di alcune Potenze.

Il nostro autore accende tante luci su una realtà oscurata volutamente da tante parti. C’è anche un problema di informazione e l’autore incomincia a mettere a fuoco la violazione del diritto internazionale in materia e cita il rapporto 2019 di Access Now sul blocco di internet: la maggior parte dei Paesi citati coincide con quelli che occupano gli ultimi posti nelle classifiche globali sulla libertà di stampa. Secondo il World Press Freedom Index di Reporter Senza Frontiere, l’Azerbaijan si è classificato al 168° posto su 180 paesi nel 2020. Quest’anno, l’Azerbaijan è stato classificato non libero nel rapporto Freedom on the Net di Freedom House. Sono dati che spiegano molte cose.

Il libro reca in copertina un’immagine che racconta in maniera efficacissima il senso delle pagine e, soprattutto, la paura per il futuro che da sola spiega come e perché il domani del Nagorno-Karabakh è frenato da troppe mani e da troppe bramosie. Due pallottole stanno per scontrarsi con un’esplosione inevitabile; su una pallotta c’è la bandiera azerbaigiana, sull’altra la bandiera armena. Si può e si deve sicuramente puntare la lente del diritto internazionale. Non è certo, però, se a trionfare sarà davvero il diritto.

20,00

Categoria:

Autore

  • Giuseppe Paccione

    Giuseppe Paccione, Giornalista, Professore a c. per l’insegnamento di “Operazioni di pace e intervento umanitario” presso l’Università degli Studi “N. Cusano” di Roma, dove ha già ricoperto l’incarico di docente per il Master di II livello sulla “Giustizia penale internazionale e grandi processi della storia” a.a. 2021/2022, dottore in Scienze Politiche/corso di studio Politico ed Economico-Internazionale presso l’Università degli Studi “A. Moro” di Bari, laureando in Giurisprudenza presso l’Università di Tor Vergata – Roma, cultore in Diritto internazionale e dell’UE, nonché in Diritto internazionale dei conflitti armati, Diritto del mare e delle migrazioni internazionali, Diritto diplomatico e consolare. Collabora come autore di una serie di analisi giuridiche internazionali per il portale giuridico Diritto.it. Condirettore e capo redattore dell’Osservatorio di politica internazionale della testata giornalistica PrPChannel; Editorialista per il settimanale Ènordest; già membro del Comitato scientifico di Italia Strategic Governance, collaboratore esterno del quotidiano Report-Difesa, di European Affairs, la Gazzetta italo-brasiliana et alias; coautore e autore di una serie di pubblicazioni: La forza di Gendarmeria europea, organizzazione internazionale a carattere regionale, all’interno del volume Costituzione e sicurezza dello Stato A. Torre (a cura di), Maggioli editore 2014; L’asilo diplomatico e caso Assange nel diritto internazionale e protezione diplomatica e consolare nell’UE, Photocity Edizioni, 2014; Pilastri del diritto europeo e italiano sul divieto di discriminazione, nel volume Sport e Identità. La lotta alla discriminazione in ambito sportivo, A. De Oto (a cura di), Bonomo Editore, 2016; Un mare di abusi. La vicenda dell’Enrica Lexie e dei due marò nel contesto del diritto internazionale, Adda Editore, 2016; Combattere l’Isis e il terrorismo internazionale con l’uso legittimo della forza militare, Nuova Editrice Universitaria, 2022; Il conflitto bellico russo-ucraino nella cornice del diritto internazionale, Nuova Editrice Universitaria, 2022; L’istituzione di un Tribunale Speciale ad hoc per l’Ucraina relativo al crimine di aggressione russa, Herald Editore, 2023.

Torna in cima