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Rashmon nel processo per stupro di Artemisia Gentileschi

Il processo per lo stupro di Artemisia Gentileschi celebrato nel 1600 fu uno dei primi eclatanti nella storia d’Italia. Secondo la denunzia di Orazio Gentileschi il suo collaboratore pittore ponzanese Agostino Tassi avrebbe stuprato la figlia diciannovenne Artemisia anch’essa pittrice.  La storiografia ufficiale dà per scontato che violenza carnale vi fu anche per la sentenza di condanna dei giudici dell’epoca. La nostra opera prospetta la possibilità che il tutto fu effetto di una montatura di Orazio cui aderì la figlia la quale, dopo il presunto stupro, intrecciò una relazione annuale col suo insegnante di prospettiva. Un indizio fondamentale in tal senso oltre al contrapporsi massiccio di testimonianze pro e contro è la stessa sentenza assai blanda che condannò Tassi a un esilio mai eseguito. Una storia antica ma assai moderna dove una giustizia suffragettista si fonda per sentenze di condanna su una dogmatica veridicità degli asserti della donna, in maniera antiquata definita ancora sesso debole. Ancora oggi una serie di condanne si fondano sulle mere dichiarazioni della donna che si afferma stuprata, in base a un criterio fallace di attendibilità senza prove. Molte sono, invece, le sentenze che assolvono il presunto stupratore con denunzianti che mentono.

“Credere a un teste è pura superstizione” (Carnelutti). Se il teste è anche la presunta vittima senza riscontri di quanto afferma è da neoinquisizione. Chiunque potrà andare dal giudice e, per interesse economico, vendetta, follia etc. riuscirà a far condannare un tizio ad anni di galera-carcerazione preventiva sulla parola. Infine, l’opera, rivela come dietro al processo dichiarativo senza prove cruciali sempre si nasconde un Rashomon, ovvero un inferno di molteplici verità tutte possibili, tutte inoppugnabili in sé, tutte sacralmente giuste.

PREFAZIONE

LA TAVOLA DRAMMATURGICA DI “RASHOMON NEL PROCESSO PER STUPRO DI ARTEMISIA GENTILESCHI”

Rashomon nel processo per stupro di Artemisia Gentileschi rappresenta il nuovo modello di testo multimediale ideato dal giudice drammaturgo Francione. Non più il copione in stile tradizionale ma piuttosto una tavola drammaturgica multiuso. Nata primariamente per il teatro, è utilizzabile per un romanzo, un film, una fiction, in tal caso per la riformulazione di un processo storico a fini di studio. È corredata da didascalie che, approfondendo la comprensione del testo in chiave ipertestuale permettono, insieme ai sensi teatrali in background, la ricostruzione storico-antropologica dei fatti e dei personaggi che furono al centro di una vicenda tenebrosa più che mai attuale, pur caduta oltre quattro secoli fa.

Il processo per lo stupro di Artemisia Gentileschi celebrato nel 1612 fu uno dei primi eclatanti nella storia d’Italia.

Secondo la denunzia di Orazio Gentileschi il suo collaboratore pittore ponzanese Agostino Tassi avrebbe stuprato la figlia diciannovenne Artemisia anch’essa pittrice.

La storiografia ufficiale dà per scontato che violenza carnale vi fu anche per la sentenza di condanna dei giudici dell’epoca. La nostra opera prospetta la possibilità che il tutto fu effetto di una montatura del padre cui aderì la figlia la quale, dopo il presunto stupro, intrecciò una relazione che durò circa 1 anno col suo insegnante di prospettiva. Un indizio fondamentale in tal senso oltre al contrapporsi massiccio di testimonianze pro e contro è la stessa sentenza assai blanda che condannò Tassi a un esilio mai eseguito.

Una storia antica ma assai moderna dove una giustizia suffragettista, poco paritaria, si fonda per sentenze di condanna su una dogmatica veridicità degli asserti della donna, in maniera antiquata definita ancora “sesso debole”.

Ancora oggi una serie di condanne si fondano sulle mere dichiarazioni della donna che si afferma stuprata, in base a un criterio fallace di attendibilità, senza prove. Molte sono, invece, le sentenze che assolvono il presunto stupratore con denunzianti che mentono. “Credere a un teste è pura superstizione” (Carnelutti).

Se il teste è anche la presunta vittima senza riscontri di quanto afferma è da neo inquisizione. Chiunque potrà andare dal giudice e, per interesse economico, vendetta, follia etc. riuscirà a far condannare un tizio ad anni di galera-carcerazione preventiva e definitiva sulla parola. Infine, l’opera rivela come dietro al processo dichiarativo senza prove cruciali sempre si nasconde un Rashomon, ovvero un inferno di molteplici verità tutte possibili, a seconda dei punti di vista, tutte inoppugnabili in sé, tutte sacralmente giuste. Tutte uroboriche, ovvero perfetti serpenti che si mordono la coda.

L’opera è stata composta con una continua traslitterazione à double face. Nella prima strictu sensu il linguaggio è stato modificato italianizzando il latino usato dai giudici nelle domande. Inoltre si è semplificato e modernizzato il linguaggio dei personaggi in causa, mantenendo in minimis certe espressioni assolutamente curiose e denotanti un’epoca.

In seconda linea si sono usati dialoghi, personaggi e strutture tipiche della drammaturgia, seguendo i canoni del teatro processuale da noi escogitato.

20,00

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Autore

  • Gennaro Francione

    Gennaro Francione è nato a Torre del Greco (NA) e vive a Roma dove in pensione come magistrato, col grado di Consigliere di Corte di Cassazione,  oggi svolge attività di artista e animatore socio-culturale.

    Soprattutto è drammaturgo, continuando la tradizione di Ugo Betti (anch’egli giudice), di cui è definito dal Centro Ugo Betti  il “naturale erede”. Ha rappresentato in Italia e all’estero  sue opere teatrali, vincendo numerosi premi. Fondatore dell’EUGIUS (Unione Europea dei Giudici Scrittori), di cui è Presidente, ha ideato il Movimento Utopista-Antiarte 2000, basato sulla Fratellanza del Libero Spirito Artistico.   Gli è stato assegnato il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri per gli anni 1995-1997-2003-2005.

    Francione ritiene che il teatro rappresenti la rivoluzione delle coscienze. Va portato ai giovani, agli emarginati, ai devianti, ai carcerati per dar loro con l’emozione (e non solo con la parola spesso vuota e non comunicante) la speranza di una vita nuova. “La Bellezza salverà il mondo” grida nella sua opera La cella di Alessio Dostoevsckij, socialista condannato alla Siberia e redento dal carcere del mondo attraverso l’arte

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